Letizia Saturni è celiaca, è specialista in scienze dell’alimentazione e giornalista.
Credo che pochi in Italia abbiano migliori carte per scrivere un blog gluten free, infatti ritengo il suo blog (e lei stessa) inappuntabile.
Preciso, corretto, equilibrato; l’unica critica che potrei farle (se proprio dovessi) è che parla un po’ troppo piano (come volume): io sono uno che urla, lei sussurra.
Naturalmente sono due modi assolutamente legittimi di esprimersi (il suo più del mio), ma credo che si parli così poco di celiachia che, ciò che viene detto, debba esserlo con voce forte e chiara.
Detto ciò, prendo spunto dal (e faccio riferimento al) suo ultimo post per aggiungere qualche considerazione “da questo lato del bancone” che può aiutare a una migliore comprensione del mercato del senza glutine.
Perché le aziende sono reticenti?
Per lo stesso motivo per cui un allenatore non racconta le proprie strategie né, fino all’ultimo, dichiara la formazione.
Si cerca di non dare ai concorrenti informazioni sulle quali fare “intelligence”.
Questo nei migliori dei casi, in altri (private label, vedi sotto) semplicemente non si hanno informazioni da dare oltre a quelle meramente commerciali (“pago le merendine 1,00 € e le vendo a 1, 27”).
I bisogni del celiaco sono informazione, dieta variata ed equilibrata e locali informati.
Letizia Saturni afferma che un ruolo importante nell’informazione è svolto dai produttori attraverso l’etichettatura dei prodotti.
Davvero?
E’, o dovrebbe essere, l’etichetta lo strumento di informazione e non –come succede in altri paesi- le riunioni periodiche delle associazioni di celiaci, con (e per) medici, pazienti e produttori?
Non le pubblicazioni, non gli spazi di discussione, non le trasmissioni radio o tv, non i siti *veramente* informativi?
L’etichettatura è, sostanzialmente, determinata dalla norma: dati gli ingredienti, la legge dice che cosa e come la devo scrivere, mi lascia un po’ di spazio nella grafica e la possibilità di tradurre i dati in più lingue. Punto.
La quantità di informazione che così posso trasmettere ha un massimo teorico, ed è un massimo piuttosto piccolo, per converso tutte le altre forme di formazione/informazione (riunioni, trasmissioni, fora, ecc.) che per quanto riguarda l’Italia chiamare carenti è un blando eufemismo, non vengono esaminati nell’elenco dei bisogni [insoddisfatti].
Dieta variata ed equilibrata.
Non una parola sulla qualità bromatologica né su quella sensoriale: basta che ci siano tanti biscotti e che non grondino colesterolo; il fatto che siano fatti con materie prime di qualità, che siano “buoni” al palato, che siano sensorialmente equilibrati, che si possa parlare di cultura dell’alimentazione piuttosto che di quantità di nutrimento sembra irrilevante.
Probabilmente lo è, io credo che oggi la cultura gastronomica gf sia a livello di “quel che non strozza ingrassa”.
Non è poco, fino a qualche anno fa erano davvero pochi i prodotti che “ingrassavano”… e oggi?
1390 prodotti nel Registro Nazionale e 6200 nel prontuario, e c’è ancora chi sostiene che sono pochi: io, per esempio.
Questi 1390 prodotti notificati non sono 1390 prodotti diversi ma molti di meno, spesso lo stesso prodotto (stesso produttore e formato) viene venduto con diversi marchi, i cosiddetti “private label”, un esempio sono vari biscotti, fatte in Italia da poche aziende che si trovano in commercio con una pletora di etichette diverse (e quindi con molte ricorrenze nel Registro).
I 6200 del prontuario meriterebbero un discorso a sé, in parte hanno la stessa caratteristica di “non originalità” di quelli notificati e, inoltre, non sono in alcun modo “garantiti” se non da una specie di autocertificazione del produttore: per alcuni di questi prodotti NON esistono nemmeno le analisi che confermino l’assenza di glutine.
Quindi, non solo sono pochi ma sono pure a rischio.
Dove acquistarli?
Dove si può.
Spendendo i buoni delle regioni in farmacia, il posto peggiore per comprare cibo, sia dal punto di vista del trasporto che dal punto di vista dell’esposizione che da quello psicologico.
Non mi stanco di ripetere che la celiachia è una “condizione” e che se si segue una dieta rigidamente gf non è una malattia, però capisco che sia un’affermazione che fa un po’ a cazzotti con il pane in farmacia.
Dove altro si può?
Spendendo i buoni anche in qualche coop e in qualche franchising ma in poche regioni, è bene tutto questo?
Perché c’è un così basso utilizzo delle possibilità che offre la norma?
Chi dovrebbe fare pressione per combattere contro i privilegi acquisiti di una categoria commerciale a favore degli interessi dei celiaci?
Spendendo i propri soldini si possono comprare nei negozi di alimenti bio o dietetici, oppure in qualche supermercato, oppure ancora da qualcuno dei pochissimi artigiani che fanno GF.
Perché così pochi artigiani?
Cosa fa l’associazione per promuovere iniziative nel campo?
E’ nell’interesse dei celiaci avere più produttori diversificati?
E questo è nell’interesse dell’associazione?
Sì, anch’io pongo più domande che risposte, ma le mie sono retoriche.
I locali informati sono una realtà complessa alla quale ho intenzione di dedicare tempo e articoli.
Sono piuttosto critico sulla situazione della ristorazione GF, ne parlerò in futuro.
2 comments:
quando vedo i prezzi degli alimenti per celiaci mi domando sempre se il costo sia giustificato
dipende che significa "giustificato".
ho scritto un post a proposito di come sono costruiti questi prezzi, rispetto al valore franco stabilimento in farmacia li devi trovare a +70-80% (ci sono due passaggi che costano 33% l'uno).
ma questa è la strada che l'associazione ha concordato -anni fa- con lo stato.
una buona soluzione all'epoca, ora -secondo molti- obsoleta e dannosa.
questo per quanto riguarda i prodotti industriali, per quelli artigianali si devono fare altre considerazioni (che "giustificano" o meno i prezzi in funzione della qualità delle materie prime, del processo e dei prodotti finiti).
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